mercoledì 30 marzo 2016

TELECAMERE NEGLI ASILI E NELLE SCUOLE? UNA INUTILE SCORCIATOIA FALSAMENTE RASSICURANTE

Alcune considerazioni in tema




Farei precedere alcune considerazioni in tema, appunto, da un'autocitazione tratta da 'L'arte di formarsi. Professionisti riflessivi e sensibilità autobiografiche' (UNICOPLI, 2008), dove già alcuni anni fa affrontavo un argomento analogo.


1. "Genitori iperprotettivi  

Ma come migliorare il proprio essere genitori del domani? Una delle possibilità è  mettere a confronto un passato abbastanza recente con il presente per poter essere maggiormente consapevoli dei ruoli genitoriali praticati senza che spesso se ne abbia piena consapevolezza. Un esempio molto efficace è stato portato da un relatore ad una attività di sensibilizzazione realizzata per la Regione Basilicata. ('Minore a chi?', a cura di G. Macario, Istituto degli Innocenti 2006).     Un prete guida un pulmino piuttosto vecchiotto per accompagnare i bambini che gli sono affidati ad alcune iniziative che devono frequentare. Al rientro, percorrendo una strada appena fuori dal paese e non essendo il prete-autista del tutto sobrio, con il sovrapprezzo di qualche goccia di pioggia, il pulmino finisce con due ruote in un fosso. Non succede nulla di irreparabile: si mobilitano subito tutti per prendere i bambini ed accompagnarli alle loro case. I bambini sono tutti eccitatissimi e l'episodio, condito di vari particolari che lo renderanno epico ed unico, resterà nell'immaginario dei bambini per mesi e mesi, come un'esperienza di vita emozionante e, appunto, da raccontare. Per i genitori, che conoscono bene il curato in questione e sanno che qualche volta all'osteria beve qualche bicchiere di troppo, ma che si prende cura dei ragazzi che vengono affidati alla parrocchia generalmente operando per il meglio, l'episodio viene classificato fra gli accadimenti della vita che vanno accettati e rispetto ai quali occorre ringraziare il buon Dio perché non è successo niente di grave. L'episodio è collocato intorno agli anni '60.    Immaginiamo ora un analogo accadimento ai giorni nostri. Intanto si dovrebbe parlare di uno scuolabus, perché non è neanche immaginabile che una persona qualsiasi, sia pure un prete, senza permessi speciali, professionalità adeguata, retribuzione relativa, ecc. ecc. ecc., possa accompagnare un certo numero di bambini in giro. In ogni caso e come minimo, al prete sarebbe stata tolta la patente ed avrebbe avuto la convocazione del proprio Vescovo, per non parlare di un possibile trasferimento di sede e di probabili denunce, e per non arrivare ad ipotizzare un possibile arresto...  In secondo luogo l'episodio non sarebbe praticamente potuto accadere perché le mamme appena vedono due gocce d'acqua, si precipitano a prendere i bambini a scuola, svuotando di fatto gli scuolabus proprio quando dovrebbero essere più utili. Nessuna di loro -ma forse ci si può inserire anche qualche papà volenteroso e moderno- si azzarderebbe a rischiare un pur breve tragitto sotto la pioggia temendo chissà quali possibili problemi. Questa disamina dell'argomento, che potrebbe sembrare una descrizione catastrofista ed essere colta come un po' esagerata, viene rivolta dal relatore ad una platea di oltre duecento persone, operatori, funzionari e dirigenti che per mestiere si occupano di bambini e giovani, ma che ad un tempo sono in gran parte anche genitori. Guardando intorno al tavolo della Presidenza si vedono decine e decine di persone che annuiscono, identificandosi evidentemente nell'atteggiamento che potremmo definire almeno in parte iperprotettivo. La coordinatrice della Regione dice “E' proprio così, succede praticamente a tutte noi”. Si capisce in tal modo -e la consapevolezza unisce tutti i presenti- quanto si sia assuefatti ad alcuni comportamenti di eccessiva protezione nei confronti dei propri figli, che rischiano di prefigurare una crescita troppo artificiosamente protetta. Troppo spesso infatti ci sono ragazzi che anche a quindici-sedici anni non sanno andare autonomamente nel centro della loro città, hanno una scarsa capacità di reagire agli imprevisti ed una bassissima resistenza alle immancabili frustrazioni che accompagneranno la loro vita adulta.
A volte un esempio ben formulato può spiegare più di molte teorie."



2. La scorciatoia falsamente rassicurante.  

Essere genitori al giorno d'oggi è sicuramente difficile. Quasi 'proibitivo', come pensava Freud annoverando l'educazione fra i compiti impossibili. 
Meno figli si fanno, maggiori appaiono le preoccupazioni volte ad assicurarsi che quell'unico figlio sul quale si concentrano massicce aspettative, possa avere davanti a sè la strada il più possibile spianata. Da qui la forte diffidenza verso gli educatori che, a vario titolo, sono chiamati ad occuparsi di accompagnare la sua crescita: maestre d'asilo, maestri, insegnanti, ma anche educatori del tempo libero, sacerdoti e simili.
"Non si accettano caramelle dagli sconosciuti!" Quante volte questo 'suggerimento imperativo' è stato pronunciato da genitori preoccupati di mettere in guardia i propri figli sui possibili 'cattivi' incontri che possono accadere.
Ma anche volendo sorvolare su quanto i 'rischi' per i bambini possano spesso provenire da ambienti familiari malsani e da persone conosciute, è il favorire uno sviluppo equilibrato, aperto ma non ingenuamente sprovveduto, franco ma con la giusta riservatezza, ed ancora sereno ma al contempo capace di autodifesa sia fisica che emotiva, che può aiutare il proprio figlio ad essere discretamente attrezzato per andare incontro alle vicissitudini dell'infanzia e dell'adolescenza. Trasformando gli insegnamenti che riteniamo più opportuni in una 'scuola di vita' e non in vuote e preoccupate raccomandazioni che solo apparentemente sedano le nostre ansietà genitoriali. Essendo capaci di dare fiducia al proprio figlio, sapendo che dobbiamo essere fiduciosi anche nelle nostre capacità educative, ben sapendo che si può sbagliare e avendo la capacità autocritica di ammetterlo anche in presenza del proprio figlio, se necessario. Solo in apparenza ciò ci fa apparire deboli, perchè in realtà ci rafforza nel nostro essere umani (e quindi perfettibili) consentendo a nostro figlio di identificarsi in una figura adulta 'possibile' e 'raggiungibile', capace di essere efficace nelle indicazioni che fornisce e non megafono di banalità auto-centrate e 'io' ipertrofici.
E' così che la capacità di resistere alle frustrazioni inevitabili che la vita ci può riservare e di fronteggiare episodi spiacevoli può affinarsi, all'occorrenza, in competenze resilienti, che permettono di riprendersi da eventuali disavventure e accadimenti spiacevoli.
Ma questo atteggiamento educativo verso nostro figlio non riguarda unicamente il rapporto genitore-figlio, perchè deve estendersi alle figure educative che a vario titolo di lui si occupano: non ci può essere mancanza di fiducia nei loro confronti (a meno che non ci siano valide ragioni, naturalmente), perchè questo corrisponde di fatto alla mancanza di fiducia nelle capacità di nostro figlio. Non possiamo pensare che tutti ce l'abbiamo con lui, o che i pericoli si annidino dovunque, perchè questo è un atteggiamento paranoico che tradisce e fa emergere la nostra inadeguatezza, non certo quella degli altri. E genera sostanzialmente insicurezza in nostro figlio. Non possiamo sentirci rassicurati nelle nostra ansia di controllo dalla presenza di mezzi meccanici, telecamere e quant'altro, che dovrebbero non solo coadiuvare l'attenzione educativa ma quasi sostituirla, trasformando il clima educativo facilitante ed empatico che ciascun buon educatore ed insegnante è chiamato a costruire, in un asettico succedersi di immagini supervisionate da un 'tutore dell'ordine educativo' pronto ad intervenire.
Si tratta di una inutile scorciatoia falsamente rassicurante: è la nostra consapevolezza di poter essere 'genitori sufficientemente buoni' (estendendo il pensiero di Winnicott sulla madre) la miglior salvaguardia per nostro figlio, che dentro di sè ha strumenti e capacità psico-socio-relazionali infinitamente più complesse di un semplice occhio elettronico, e al quale dobbiamo concedere più ascolto ed attenzione. Le nostre angosce, così facendo, si attenueranno e, ad un tempo, i timori e le eventuali preoccupazioni  appariranno meno distruttive e più gestibili agli occhi di nostro figlio.

domenica 20 marzo 2016

LA STORIA DI JERREH

UN LUNGO VIAGGIO

Ieri era il 19 marzo 2016, festa del papà.
Ho trascorso la giornata in maniera piuttosto particolare, rispondendo positivamente all'invito rivoltomi da  Federico Zullo, presidente nazionale (riconfermato per il prossimo triennio) dell'Associazione Agevolando,
A Bologna, con una sessantina di associati provenienti da diverse Regioni, si è svolta la loro assemblea nazionale intitolata 'Raccontandoci', alla quale ho portato un contributo formativo su 'Percorsi autobiografici e sviluppo resiliente'.
Al termine della sessione formativa vengo informato che uno dei ragazzi dell'associazione avrebbe avuto piacere di farmi avere un  libretto che lo riguardava e che aveva appena scritto con l'aiuto di Roberto, presumo uno dei suoi educatori.


Il 'lungo viaggio' è la storia di Jerreh, oggi diciottenne, che nel gennaio 2014 si è messo in viaggio dalla città di Brikama in Gambia attraversando Mali, Burkina Faso, Niger e Libia, prima di avventurarsi, dopo mille vicissitudini, nel Mar Mediterraneo su di un gommone ("In piedi, uno stretto all'altro, nella notte buia, nel mare nero. Senza giubbotto, senza cappello, senza pane, senza acqua, stavo male ma non avevo paura...") ed approdare, infine, in Sicilia.


Ecco alcuni dei passaggi del suo racconto.

"Nel mio cuore volontà e tristezza: davanti a me mia madre, i suoi occhi sono pieni di lacrime (...) Mio fratello non piangeva con gli occhi ma col cuore. (...) so che dovrò attraversare un deserto grande come il mare e un mare grande come il deserto (...) Fino ad allora non avevo mai pianto, anche se nel mio cuore sentivo una grande nostalgia. Comunque non c'è stato mai un momento in cui ho pensato di di tornare indietro. (CAP.  PRIMO)

" Un mese lunghissimo (ad Agadez, nel Niger centrale) ad aspettare che ci siano abbastanza persone per riempire il pick up che ci porterà in Libia, al prezzo concordato di 10.000 cfa a testa, (...) Ogni giorno passava sempre uguale al giorno prima e al giorno dopo: non potevo uscire di casa perchè non avevo documenti, se la polizia mi avesse fermato senza documenti mi avrebbero messo in prigione e la prigione in Niger non è come un albergo (...) Il deserto è un mare tutto uguale (...) Non avevo mai immaginato che la notte nel deserto fosse tanto fredda (...) Arrivati al confine (...) I soldati sparano, ma nessuno di noi viene colpito e il viaggio continua: siamo in LIBIA." (CAP. SECONDO)


" A volte abbiamo incontrato un posto di blocco e dei soldati che sparavano e il nostro autista che accelerava e rispondeva agli spari mentre noi tremando di paura ci rannicchiavamo sul fondo. (...) (A Tripoli) Mi è capitato che mentre tornavo a casa stanco dal lavoro, alcuni bambini ci prendevano in giro, ci picchiavano anche perchè vedevano la nostra pelle nera, ma noi non potevamo difenderci, non potevamo reagire. (...) A volte restavo tutto il giorno ad aspettare per niente e quel giorno niente lavoro, niente soldi e niente cibo. (...) Ma dov'è  l'Europa e che cos'è l'Italia? Io non sapevo niente, sapevo soltanto che era ormai arrivato il momento di partire. (...) Dopo poco la musica cambia. Ci fanno coricare per terra con le mani in avanti sopra la testa. E intanto con il manganello ci picchiano sulla schiena e sul sedere. Poi ci chiudono in prigione. Tre giorni senza mangiare e con tanti brutti pensieri nella testa che non ci lasciavano dormire. (...) Alle otto del mattino ci hanno portato in riva al mare. Li siamo rimasti per giorni ad aspettare il momento di partire, finchè una notte::: Eravamo forse in cento. Come potevamo stare tutti su quel gommone? (CAPITOLO TERZO)


"In Sicilia con un pulman ci hanno portato in aeroporto. Era la prima volta in aereo. Tanta fatica per arrivare in Italia e ora mi tocca morire su questo aereo. Il decollo è stato tremendo. Ma l'aereo non è caduto ed è atterrato tranquillamente a Bologna. Da Bologna in macchina fino a Tabiano (PARMA), nella comunità che mi ospiterà finchè sono minorenne. (...) Ho fatto una doccia e dal mio corpo e dai miei capelli scendeva un'acqua nera nera. Ora vado a dormire, ma da domani la mia storia continua... (CAPITOLO QUARTO).

Jerreh -ci informa nel risvolto di copertina- sta imparando a cucinare, a cucire, a coltivare un orto, andando a scuola e studiando l'italiano, in modo da poter scrivere da sè il prossimo libro.



Subito non mi è venuto in mente, e quindi non ho potuto dirglielo ieri, quando molto affettuosamente ha voluto scrivere di suo pugno la dedica sul suo libro, ringraziandomi. Ma giusto sei anni fa, nell'aprile 2010,  ho organizzato e condotto, con l'Istituto degli Innocenti e per conto della Commissione per le adozioni internazionali, una formazione a Firenze della durata di una settimana, dedicata al gruppo dei responsabili per le adozioni internazionali della Repubblica del Gambia.
E' stata una bella esperienza, che ha cercato di accrescere l'attenzione al futuro dell'infanzia spiegando alla delegazione  del Gambia gli sforzi dell'Italia per accogliere al meglio i loro figli tramite il canale delle adozioni internazionali. Un ambito diverso da quello descritto nell'odissea vissuta da Jereh, ma pur sempre uno dei mille aspetti e forme dell'accoglienza che speriamo possano contribuire a rendere meno aspri ed accidentati i cammini della vita per tutti i giovani.
In attesa di poter leggere ed apprezzare il prossimo lavoro di Jereh.





domenica 13 marzo 2016

FUKUSHIMA, una storia nucleare. Fra autobiografia e impegno sociale

PIO d'EMILIA E L'IMPEGNO PER LA VERITA' SU FUKUSHIMA 


"Fukushima - Una storia nucleare" è un docu-film con la regia di Matteo Gagliardi che, a 5 anni esatti di distanza dal disastro nucleare dell'11 marzo 2011 che ha coinvolto anche la centrale nucleare di Fukushima in Giappone, viene messo in onda da SKY, rimanendo comunque visionabile in streaming sul sito di SkyTg24.

Si tratta di un docu-film, come si usa ormai dire di rappresentazioni che utilizzano interviste e riprese di varia natura che ricostruiscono fedelmente fatti storici utilizzando un registro narrativo, di rara potenza e chiarezza. 

Il triplice evento catastrofico che esattamente un lustro fa ha colpito il Giappone -terremoto, tsunami e fall-out nucleare della centrale di Fukushima- coinvolgendo direttamente e indirettamente nel disastro milioni di persone, viene infatti minuziosamente ricostruito mediante lo sguardo autobiografico di un giornalista che vive in Giappone da più di 30 anni, Pio d'Emilia, che, invece di fuggire, decide di documentare in prima persona quanto sta accadendo in un frangente così drammatico. La competenza professionale, l'impegno sociale e l'attaccamento a questa terra di adozione appaiono quasi inscindibili nel corso della visione del filmato. 
Impressionanti nel loro crescendo le progressioni step by step di Pio d'Emilia, 'cacciatore di verità': dagli spostamenti controcorrente (mentre chi può, fugge, lui si dirige fin da subito verso nord verso Fukushima girando ore e ore di video, primo giornalista straniero ad entrare nella 'zona proibita') alla partecipazione al primo gruppo di giornalisti ammessi in visita alla Centrale di Fukushima dalla Tepco -azienda che gestisce l'impianto- nel 2013 (con riprese letteralmente carpite in un clima di evidente boicottaggio delle autorità piegatesi ad una tale 'intrusione' solo per le pressioni internazionali); dalla inedita intervista all'ex-Primo Ministro del Giappone Naoto Kan (che dopo le dimissioni non si trincera dietro i no-comment, riferendo gli incredibili e scriteriati comportamenti dei responsabili della Centrale e di molte autorità preposte alla sicurezza e facendo ben comprendere gli interessi economici sottesi alla revoca della decisione presa dal suo governo di bloccare tutte e 53 le centrali nucleari del Paese) alla stupefacente conclusione basata sui lavori della apposita commissione d'inchiesta che solo la rottura di una valvola che regolava l'afflusso dell'acqua dalla piscina del reattore 4 alla piscina adiacente dove erano conservate tutte le barre di combustibile radioattivo, ha evitato un  meltdown nucleare (fusione del nocciolo a contatto con l'atmosfera) che avrebbe potuto distruggere la città di Tokio.

Non credo che l'attuale governo giapponese, vista la decisione presa a favore della permanenza del nucleare, abbia concesso a Pio d'Emilia l'Ordine del Sol Levante ( o Kyokujitsu shō ).

Certamente, però. la lotta a favore delle energie alternative e sostenibili unita alla denuncia della follia nucleare, che sta conquistando fette sempre più larghe dell'opinione pubblica mondiale, ha trovato in questo giornalista uno dei suoi paladini più convinti

martedì 8 marzo 2016

LE DONNE NELLA RESISTENZA. Un contributo che fatica ad essere riconosciuto.

8 marzo 2016

Dal Natale scorso, causa gli impegni lavorativi molto concentrati, non sono riuscito a scrivere sul mio blog. Con l'ultimo contributo dedicato alla Resistenza ...in canto e musica.
E oggi, l'8 marzo, festa della donna, ho deciso di riprendere il tema di fondo della Resistenza, andando a vedere fra gli oltre 80 volumi della mia piccola raccolta dedicata al tema, quanto sono stati scritti da donne e, soprattutto, quanti sono dedicati al ruolo delle donne nella Resistenza. Quasi nessuno. Per questo ho deciso di lasciare questo spazio direttamente a due donne ed ai rispettivi contributi al tema in questione.

Il primo spazio è dedicato a Laura Seghettini, vice comandante della 12° Brigata Garibaldi, che instancabilmente da molti anni cerca di portare un contributo di verità e di memoria sulla morte del Comandante Facio, il 'caso Facio', appunto.


Questo l'incipit della prefazione del volume, che commenta anche la foto riprodotta in copertina:
"Alcune istantanee, scattate a Parma la mattina del 9 maggio 1945, riprendono i partigiani della 12° Brigata Garibaldi mentre sfilano tra due ali di folla festante in strada Vittorio Emanuele. La luce è chiara e trasparente. I volti dei comandanti, poco più che ragazzi, vi appaiono belli e radiosi come può forse accadere una sola volta nella vita. Subito dietro di loro una giovane donna, con i capelli scuri sciolti sulle spalle, incede nella sua divisa di flanella kaki: è Laura Seghettini, vicecomandante della brigata, unica presenza femminile tra tanti uomini."
Ho appena ascoltato una breve sequenza di una trasmissione su Rai3 dove una storica interrogata a proposito della quasi totale assenza dalle immagini pubbliche delle pur molte donne impegnate nella Resistenza (se ne citano 35.000 combattenti e 70.000 dei Gruppi di difesa), affermava che alla stragrande maggioranza di loro, una volta terminata la straordinarietà del periodo combattente, era stato impedito di partecipare alle stesse sfilate della vittoria per "mantenere una immagine pubblica seria del movimento combattente"! Come se le donne che avevano combattuto e militato nel movimento partigiano fossero di per sè da considerare poco 'serie'. L'immagine del Vicecomandante Laura Seghettini che sfila nel posto che le compete durante la Liberazione è da considerarsi, quindi ed incredibilmente, un'eccezione.

Il secondo spazio lo dedico invece ad un volume del 1951, una "Antologia della Resistenza" scritta e curata da Luisa Sturani. (Centro del Libro Popolare - Torino).


La parte che segnalo (pagg. 331-349), e che riproduco nella sezione introduttiva, si intitola 

L'OPERA DELLE DONNE NELLA RESISTENZA

Un antico adagio italiano dice che, quando le gonnelle sposano una causa, questa può dirsi già bell'e vinta. Le donne, come s'è accennato più volte, sposarono presto la causa partigiana. Esse furono fin dai primissimi inizi al fianco dei combattenti. E immediata si pose la necessità di utilizzarne in modo più organico la partecipazione.
Sorsero prima i "Gruppi di difesa della donna" dai quali si formarono i "Gruppi di volontarie della libertà": Queste volontarie si uniscono ai Distaccamenti, alle Brigate, alle Divisioni partigiane e si mettono a loro disposizione come Gruppi di combattenti, di infermiere, di cicliste, di informatrici.
Le donne resero dei servizi preziosissimi nei servizi di collegamento particolarmente come 'staffette'.Occorreva abilità e astuzia, per riuscire a passare incolumi tra tanti pericoli, e l'eroismo di tacere nonostante ogni tortura, nel caso, purtroppo assai frequente, di cattura. Esse furono delle staffette instancabili, intelligenti e audaci e seppero morire senza che una parola fosse uscita dalle loro labbra.
Nella guerra di liberazione caddero 623 donne: 17 furono decorate con la medaglia d'argento; 14 con la medaglia d'oro.
Esse sono:
1) Bandiera Irma, gappista. Divisione partigiani (Bologna), Brigata 7 G.A.P. Gianni (alla memoria)
2) Borellini Gina di Giuseppe n. a San Posidonio (Modena) nel 1919, partigiana combattente, vivente (nel 1951, ndr), deputato alla Camera
3) Bianchi Lidia, n. a Torino nel 1919, partigiana combattente (alla memoria)
4) Capponi Carla fu Giuseppe, n. a Roma 1921, partigiana combattente (vivente)
5) Degli Esposti Gabriella, fu Augusto, n. a Calcara (Bologna) 1912, partigiana combattente (alla memoria)
6) Enriquez Anna Maria, partigiana combattente (alla memoria)
7) Lorenzoni Tina, partigiana combattente (alla memoria)
8) Marighetto Ancilla, fu Giacomo, n. a Castel Tesino (Trento) 1927, partigiana combattente (alla memoria)
9) Menguzzato Clorinda, n. a Castel Tesino (Trento) 1925, partigiana combattente (alla memoria)
10) Rosani Tina di Ludovico, partigiana combattente (alla memoria)
11) Rossi Modesta di Matteo, n. a Bucini 1914, partigiana combattente (alla memoria)
12) Deganussi Cecilia di Camillo da Udine (alla memoria)
13) Pretelli Parenti Norma di Estewan da Massa Marittima (Grosseto) (alla memoria)
14) Vassalle Vera, da Viareggio (Lucca) (vivente).

In alcuni altri documenti se ne citano 16 di medaglie d'oro, in altri ancora 19, forse per attribuzioni a combattenti successive a quelle indicate nel volume, ricordo, del 1951. Da osservare che ben 11 su 14 sono state assegnate 'alla memoria' per probabili morti in combattimento.
In ogni caso i loro nomi, come simbolo di una partecipazione ben più ampia al movimento resistenziale, potrebbero essere ricordati nelle occasioni che intrecciano fra loro l'8 marzo e il 25 aprile. 
Viene fatto da anni per le persone uccise dalla mafia. 
Potrebbe contribuire a preservare il ricordo 'militante' del loro contributo e del loro sacrificio. 
Per non dimenticare che la libertà conquistata la si deve anche a loro.