sabato 27 agosto 2016

LA PEDAGOGIA DI DON GALLO

(Comunità di San Benedetto al Porto di Genova - Alberto Folli, La pedagogia di don Gallo, Sensibili alle foglie, 2015)

                                                                               Presentazione di Giorgio Macario

Don Andrea Gallo riceveva nel 2010 ad Anghiari il Premio nazionale per l’Autobiografia, uno dei molti premi e riconoscimenti che gli sono stati assegnati particolarmente negli ultimi anni della sua vita, a sottolineare il prestigio morale maturato nel tempo.

Tre anni più tardi, alla vigilia del suo 85esimo compleanno, lasciava alla ‘sua’ Comunità di San Benedetto al Porto a Genova una eredità considerevole ma al contempo difficile: proseguire e innovare percorsi di coscientizzazione e di costruzione di nuovi protagonismi sociali e politici, rivolti in particolare a quanti tendono ad essere marginalizzati nella nostra attuale società.

Oggi, a distanza di tre anni dalla sua scomparsa, la Comunità presenta, a firma di Alberto Folli, sociologo ed educatore professionale già partecipante diretto all’esperienza di vita in Comunità negli anni ’80 come obiettore di coscienza e non solo, un ambizioso tentativo di “tracciare la trama teorico pratica di un approccio all’altro che, nel contesto comunitario, diventa pedagogia. Una pedagogia che, a partire dalla Comunità per arrivare al territorio, diventa intervento sociale e progetto politico.”

A motivare il perchè l’avvio di una sistematizzazione della ‘Pedagogia di Don Gallo’ sia una impresa senz’altro ambiziosa basterebbe il fatto che gli interventi realizzati venivano molto spesso indicati, sia dagli esterni ma anche dagli stessi protagonisti interni, come frutto della ‘praticaccia’ della Comunità. Convinzione che posso confermare anche in base alla mia esperienza ‘autobiografica’ di formatore, non avendo avuto notizia da colleghi di apporti formativi consistenti realizzati per la Comunità e avendo avuto una sola volta, personalmente negli anni ’90, l’opportunità di offrire loro un contributo formativo solo perchè l’approccio autobiografico proposto intercettava, almeno in parte, il concreto ‘sentire’ della Comunità. 

Ma al contempo chiunque abbia conosciuto Don Andrea Gallo non solo per qualche fugace incontro o ascolto estemporaneo, difficilmente poteva evitare di percepire, accanto alla naturalezza delle sue capacità relazionali quasi innate, una profondità di pensiero del tutto particolare, estremamente associativa, che filtrava qualsiasi costrutto teorico attraverso esperienze di vita proprie ed altrui. 

Non per caso, poche settimane fa, di fronte ad alcune centinaia di educatori napoletani a conclusione di un lungo percorso formativo, ho citato questo volume come significativo esempio di ricostruzione di un percorso prassi-teoria-prassi, laddove si va a correggere l’errata -ma diffusa- percezione di una Comunità dominata da prassi autoreferenziali.

Questo contributo di riflessione si autodefinisce in IV di copertina come frutto di una estesa ricognizione bibliografica in tema. Ma per meglio sintetizzare questo tentativo di fondare da un punto di vista pedagogico l’operato della Comunità, attribuendo il giusto merito all’instancabile mix di azione e di pensiero del suo fondatore don Andrea Gallo, credo si possano identificare quattro step, di crescente consistenza in quanto ad estensione della trattazione.

Per sfatare il mito di una autoreferenzialità poco riflessiva, il primo step (Le ragioni di questo libro, che rappresenta una sorta di prefazione) da conto di un articolato processo di ricerca-intervento avviato dalla Comunità nel 2007 e concluso nel 2012, denominato ‘San Benedetto Reload’. Una sorta di ri-partenza che per dare gambe ad un rinnovato futuro ha scelto di scandagliare il passato in modo da renderlo comprensibile e trasmissibile.

Il secondo step (Attualità della pedagogia di Don Gallo, di fatto una introduzione allargata) prende avvio dall’attuale perdita dell’orizzonte di senso per l’uomo contemporaneo e cerca di argomentare la risposta positiva alla domanda “E’ ancora valida la proposta della Comunità di San Benedetto fondata sulla pedagogia di Don Andrea Gallo?” passando, per non citare che i principali, dal contributo di Galimberti alle riflessioni di Benasayag e Schmit, dalla teologia della Liberazione reinterpretata dalla stesso Don Gallo agli spunti del sesto Rapporto Giovani dell’Istituto IARD, dalle narrazioni di Pennac alle indicazioni di Mounier, filosofo del personalismo.

Con il terzo step (La pedagogia di Don Gallo e della Comunità di San Benedetto, di fatto la I parte del volume) la ricognizione bibliografica si concentra sui documenti base della Comunità, già a partire dagli anni ’70; analizza poi diversi documenti rilevanti di appuntamenti nazionali ed internazionali riferiti alla dipendenza da sostanze e non solo; conferma l’attenzione alla riflessione sugli interventi della Comunità riferendo una precedente ricerca partecipativa della fine degli anni ’80 durata 4 anni, condotta da Giulio Girardi e che è stata sintetizzata in un volume dal titolo significativo ‘Dalla dipendenza alla pratica della libertà’; prendendo in considerazione, infine, testi direttamente di Don Gallo, testi tratti dalle sue agende e testi che mettono al centro la sua figura. Sono diversi quindi gli incontri, documentati, della Comunità con alcune pratiche pedagogiche fondate teoricamente ma al contempo capaci di ‘contaminare e contaminarsi’.  Il tutto, secondo l’autore, con grande umiltà “ma anche con l’autorevolezza della propria metodologia dialogica.”

Il quarto ed ultimo step (I principali autori e le teorie di riferimento, II parte del volume) si estende per oltre metà del libro ed ha l’ambizione di intrecciare pochi ed essenziali riferimenti bibliografici di alcuni fra i principali autori che stanno alla base della pedagogia di Don Gallo collegandoli alle prassi via via sperimentate dalla Comunità nel suo impegno sociale, politico e, quindi, pedagogico e terapeutico. O Per dirla con le parole dell’autore, “frutto dell’incontro di spunti diversi, uniti e tradotti, nel nostro caso, dalla particolare sensibilità di Don Andrea, che li ha elaborati insieme ai suoi compagni di strada.” Si passa quindi dall’influenza del pensiero di due filosofi come Emmanuel Mounier (a partire dal personalismo) ed Emmanuel Lèvinas (con le riflessioni su Essere, Io e Altro) al principale riferimento pedagogico racchiuso nella ‘pedagogia degli oppressi’ di Paulo Freire; dalla concreta collaborazione di Giulio Girardi, già citata, all’immancabile influenza del pensiero e dell’azione concreta di Don Lorenzo Milani; per concludere con la forte affinità della Comunità con il pensiero ‘antipsichiatrico’ di Thomas Szasz e di Claude Olievenstein, e la concreta vicinanza in molti dei suoi documenti al pensiero di Franco Basaglia che ispira e guida la depsichiatrizzazione in Italia.

Impossibile anche solo tentare di seguire i mille intrecci richiamati nel volume, che meritano sicuramente una lettura attenta. Al termine della quale, per quanto mi riguarda, ho cambiato, almeno in parte, la mia opinione sull’impermeabilità e la consistente autoreferenzialità che attribuivo alla Comunità di San Benedetto. Estendendo alla storia della Comunità la percezione che ho maturato nel 2009 quando ho coordinato la presentazione a Genova del volume di Duccio Demetrio su “L’educazione non è finita. Idee per difenderla”. Avevo invitato Don Gallo a fare da discussant e mi aspettavo che potesse aver dato un’occhiata al libro per poi poter effettuare le sue osservazioni in ‘libertà’, attingendo al suo infinito repertorio di citazioni, aneddoti e riflessioni che avevo avuto modo di ascoltare in più di un’occasione. Quanto mi sbagliavo! L’ho visto arrivare non solo con il volume sottolineato  in più punti, ma con sei-sette pagine di appunti fitti e dettagliati, affascinando i presenti con riflessioni e considerazioni puntuali e competenti. Con la lettura di questo volume ho potuto convincermi che la ‘sua’ Comunità non poteva essere da meno. 

venerdì 5 agosto 2016

L'AVVENTURA DI OLIVER TRA I RICORDI

L'AVVENTURA DI OLIVER TRA I RICORDI

Nuovi spunti per un'educazione alla letto-scrittura semplificata 
secondo il linguaggio 'Easy-to-Read'

(Gabriella Fredduselli, Erickson Live, Trento, 2016)

                                                                     Presentazione di Giorgio Macario

Gabriella Fredduselli è una pedagogista che lavora presso la Cooperativa Sociale Genova Integrazione dell’ANFFAS. L’ho conosciuta in quanto partecipante ad un Laboratorio Autobiografico su ‘Orientare il futuro’ che ho condotto a Genova un paio di anni fa e trovarmi citato nei ringraziamenti del suo ultimo lavoro “L’avventura di Oliver tra i ricordi” per le ‘preziosissime sollecitazioni ricevute’ mi ha indubbiamente fatto piacere. Più che per la gratificazione personale -scontata-, il riferimento mi ha confermato l’importanza di uno dei principi cardine della proposta autobiografica laboratoriale -quella citata, come diverse altre- che consiste nel rivolgersi ad una pluralità di persone con impegni professionali e personali diversificati, che apprendono reciprocamente in un clima caratterizzato dalla fiducia e dall’ascolto non giudicante.

Ho ritrovato questo stesso invito a valorizzare le diversità, oltre che a riflettere sul rapporto genitori-figli, come messaggio portante del suo ultimo libro che completa -per il momento- la trilogia dei suoi scritti dedicati ad Oliver il gatto.

Ma andiamo con ordine. Se ne “L’avventura di Oliver oltre il giardino” (2012) l’autrice ha preso spunto dai Laboratori di ‘pensieri, parole, immagini’ realizzati con i bambini ed ha fatto vivere a Oliver il gatto le prime esperienze sensoriali ed amicali dell’infanzia, nel successivo “L’avventura di Oliver in piazza” (2014) Fredduselli ha perfezionato l’impianto di una educazione alla letto-scrittura semplificata secondo il linguaggio ‘Easy-to-read’ facendo progredire Oliver verso l’adolescenza e l’innamoramento, fino alla costruzione di una propria famiglia. In questa seconda storia lo stesso coinvolgimento di Pietro, un bambino delle elementari che ha svolto le funzioni di ‘lettore di prova’ ed ha co-partecipato alla ‘traduzione’ della storia secondo la tecnica codificata dal progetto europeo ‘Pathways’, testimonia la sensibilità e l’attenzione alla qualità del lavoro complessivo da parte dell’autrice. La pubblicazione di questi volumi, così come per il successivo, è avvenuta non a caso in una nuova linea editoriale della Erickson, denominata ‘LIVE’, che intende dare voce alle esperienze più significative in una pluralità di contesti (fra questi l’ambito autobiografico e narrativo, quello professionale scolastico, educativo e socio-sanitario ma anche del mondo afferente le mille forme della ‘cittadinanza attiva’.)

Nel terzo volume (2016) Oliver il gatto racconta di sè attraverso il ricordo e ci racconta come ha imparato sul campo a fare il genitore, apprendendo dagli stessi figli ad essere più tollerante. Ma in questo volume, nonstante le dimensioni contenute, sono in realtà contenuti se non tre libri, almeno due e mezzo.

Il primo è rappresentato dal racconto vero e proprio che riguarda Oliver, mamma gatta ed i piccoli Olly, Trilly e Molly, e ci fa vedere come possano essere gli stessi genitori ad imparare dai loro figli, rievocando certo la loro infanzia ed adolescenza con i tratti di similitudine risontrabili e spesso dimenticati,  ma anche andando oltre questi con il padre che riconosce, discutendo con mamma gatta: “Hai ragione, non ero così aperto. E’ stato Olly che ci ha fatto capire che un sentimento come l’amicizia fa superare qualsiasi differenza, anche di razza.” E più oltre: “E’ vero, sono stati tutti i nostri cuccioli a insegnarci come fare i genitori.” L’amicizia tra Olly il gattino e Billy il cucciolo di cane, salvataggio da sicuro annegamento compreso, cementa anche l’incontro fra i rispettivi padri che non erano certo teneri verso questa improbabile amicizia. In un mondo che cambia a ritmi frenetici i depositari dei saperi non sono più i genitori e gli anziani in genere; certo gli adulti hanno dalla loro l’esperienza di vita vissuta, ma questo non basta -ci dice ancora il racconto- a fornirci le chiavi per poter affrontare le vicissitudini dei giorni a venire, men che meno  a suggerirci tutto quanto occorra per crescere i nostri figli  ed essere quindi genitori ‘sufficientemente buoni’.

Il secondo ‘libro nel libro’ è rappresentato dalle schede operative che più che un compito rappresentano una ricerca di protagonismo da parte del lettore, cui non si chiede soltanto di accontentarsi della lettura della storia come apporto didascalico ma lo si invita a provare a ricordare di sè e raccontarsi scrivendo (e)o disegnando (alcune di queste schede compilate sono riprodotte in fondo al volume). Si riconosce in tal modo anche ai bambini una specificità per la loro storia “con le voci, i suoni, i profumi, i baci, le carezze” che hanno ricevuto, già fin dall’infanzia. Questa proposta mi ha richiamato alla mente il progetto ‘Nati per scrivere’, che coordino con due colleghi della LUA, ancora in fase sperimentale ma che ha già coivolto 20 città in Italia e circa 900 studenti di 4° e 5° elementare nella realizzazione di laboratori autobiografici dedicati al ‘Paesaggio dentro e fuori di me’; un’esperienza ricchissima e affascinante che, sulla scia della pur più famosa ‘Nati per leggere’, tende a lanciare un messaggio analogo a quello del volume di cui stiamo parlando: occorre archiviare definitivamente la convinzione che l’autobiografia sia un territorio che si percorre in età avanzata perchè solo allora si può avere qualcosa di significativo da dire e da trasmettere. Non è vero. In qualsiasi età della vita (e nell’ultimo anno ho avuto modo di sperimentarlo con i ragazzi di ‘Nati per scrivere’, con gli studenti universitari dei miei laboratori all’Università di Genova, con i professionisti di un’organizzazione pubblica del nord-Italia, con i partecipanti al laboratorio alla LUA sulla conduzione di gruppo in ambito autobiografico provenienti da tutta Italia, con i partecipanti dell’Università della Terza Età) i ricordi sono parte integrante dalla nostra ‘narrazione personale’ e ci sostengono particolarmente come individui sociali, in relazione con gli altri.

La terza parte cui ho fatto riferimento è la versione ‘facile da leggere’ della stessa storia. La versione semplificata, anche in questo caso, ha usufruito della collaborazione di uno studente di III elementare della scuola primaria Ariosto di Genova, Radmann, e successivamente con l’intera classe oltre alla lettura è stata richiesta a tutti la compilazione di un questionario di gradimento. Una modalità che ha lasciato tutti i piccoli lettori soddisfatti e concordi sulla chiarezza e l’accessibilità della nuova versione della storia.

Come non concordare, quindi, con la considerazione conclusiva dell’autrice: “E’ stato insegnato ai bambini che ciascuno deve essere ascoltato e che ciò che ciascuno racconta vale per la sua preziosa unicità.”? In attesa che possibili sequel e/o prequel possano ancora accompagnare i piccoli estimatori di Oliver il gatto verso nuove avventure.

La presentazione è inserita anche sul sito della LUA all'indirizzo:
http://www.lua.it/index.php?option=com_content&task=view&id=4143&Itemid=109 

giovedì 4 agosto 2016

DICHIARATI MATTI SI RACCONTANO


DICHIARATI MATTI SI RACCONTANO

La follia parlata finalmente scritta

                                                                                   Presentazione di Giorgio Macario

(a cura di Gabriella Veardo, ERGA Edizioni, Genova, 2015)



Devo subito confessare che mentre conosco abbastanza bene, per esperienze teatrali giovanili e successivi percorsi autobiografici, la curatrice di questo volume Gabriella Veardo, non altrettanto posso dire degli autori che hanno frequentato per tre anni un Laboratorio autobiografico. Laboratorio che è stato condotto da Gabriella che ha potuto giovarsi, per sua stessa ammissione, del ‘clima di rispetto e apertura’ favorito dalla pratica pluriennale di gruppi di auto-aiuto promossi nell’ambito dell’Associazione PRATO Onlus.


Presentare, quindi, da un punto di vista autobiografico gli scritti di Federico, Silvia, Gabriele, Emilia, Andrea, Chiara, Valter e Giovanna, non è cosa semplice, anche se un sostegno l’ho ricevuto dalla lettura dei loro scritti che ha richiamato alla mia mente diverse ‘sintonie’: da un lato con le inquietudini degli anni giovanili, con l’impegno in ambito sociale e gli approfondimenti connessi alla chiusura dei manicomi e al movimento ‘antipsichiatrico’; dall’altro con i più recenti percorsi, ormai ventennali, di approfondimento dell’approccio autobiografico.

Al centro degli scritti ci sono le storie di vita di ciascuno ed un tratto comune a tutte è certamente l’esperienza del dolore che, ci dice la curatrice, è parte integrante e storia comune; ma è stato condiviso, “così come è stato condiviso il riemergere di buoni ricordi, incontri, amicizie, affetti,  emozioni.”

E così  Federico in ‘Fiumi d’ombra’ sceglie come filo conduttore l’anima: e se a 15 anni si sente l’ombra di se stesso che aveva già conosciuto l’inferno, descrivendo successivi percorsi accidentati, incontri  reali ed immaginati e vissuti non condivisibili (ma ugualmente ‘offerti’ al lettore), spende infine parole di apprezzamento per la possibilità di esprimersi per iscritto,  conquistata sì con fatica e purtuttavia permeata di armoniosità.

Per Silvia, invece, sono i sogni il leitmotiv  del suo scritto di vita: dagli anni colorati dell’infanzia all’esperienza del “tempo bianco e nero, senza colori” della depressione in gioventù, fino alla speranza di “un buon futuro”  come vita di contro ad un passato percepito come morte, da confinare per quanto possibile nel mondo dei ricordi.

Gabriele dichiara fin da subito di aver colto una maggiore leggerezza e divertimento nell’autobiografia rispetto all’auto-aiuto, ma i riferimenti che più mi colpiscono sono quelli connessi all’orto botanico di Cogoleto, che aprono e chiudono lo scritto, dove lavora in tranquillità per assicurarne la pulizia e la manutenzione. Ho conosciuto questa struttura solo pochi mesi fa per un progetto di Laboratorio di Green Autobiography e mi è subito sembrato un bel posto. Complice questa sintonia, ho come la percezione che i pur esplicitati “veri momenti no della mia vita” (su tutti 2 mesi di ricovero all’SPDC) tendano a stemperarsi lungo il testo, che trasmette apprezzamento e vicinanza sia agli psichiatri incontrati che ai ‘compagni di viaggio’.

“Tutti fuggono il dolore, io ora il dolore non lo subisco e non scappo, lo acccolgo e tento di trasformarlo, che sia la mia forza e non una debolezza.” Questa una delle affermazioni di Emilia che fa trasparire consistenti capacità resilienti conquistate sul campo. Una dichiarazione di intenti in questa “Arrampicata”, sicuramente il più poetico fra i contributi del testo, che riassume la storia di vita (e della malattia) di Emilia intrecciandola con i numerosi incontri ed amori della sua vita, fermo restante l’uso parsimonioso della parola ‘amico/a’. Con un riferimento poetico al valore dell’oggi, un presente di ascolto e di rispetto alla ‘Prato’ splendidamente espresso nella poesia ‘Noi ci vediamo meglio’: “Noi ci vediamo meglio/sul terrazzo/fumando al tramonto/di fuoco e indaco/su un mare grigio blu/ Noi ci vediamo meglio/seduti in circolo a raccontarci/ad ascoltare soprattutto/ Noi ci vediamo meglio/attorno a un tavolo/mentre scriviamo delle nostre storie/ Noi ci vediamo meglio/a cena/col sugo rosso sulla pasta calda/e il pane/e qualche risata/mentre la notte sta arrivando.”

E ancora Andrea: “...Sembra che la mia vita sia la storia degli alberi che ho amato. Qualcuno si erge alto, qualcun altro è caduto...”; Chiara (“ma anche limpida”), con il suo filo conduttore femminile che al “crescendo di voci e allucinazioni dalla mattina alla sera ed anche la notte...Di qui il primo ricovero e poi il secondo, poi due Comunità Terapeutiche”, fa seguire un vademecum delle proprie ‘piccole felicità’; Valter che apre e chiude il suo scritto dichiarando il proprio amore per le fotografie,  che “sono meglio della realtà”, autoincitandosi comunque a reagire alla malattia: “Non dobbiamo farci sopraffare dai brutti pensieri...Cerchiamo di scacciare assolutamente la malattia”; ed infine Giovanna, che riferendosi a tre anni di lavoro insieme mettendo in circolo “emozioni, sentimenti, energia che ognuno di noi ha” nel lavorare in gruppo, sottolinea la propria “emozione di scrivere con una carica emotiva così forte (che) a me personalmente non era mai capitata.”

Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista, in una sua conferenza su ‘Quotidianità ed emergenza’ di quasi 10 anni fa tenuta proprio a Genova osservò: “Occorre superare i modelli con cui veniamo formati. Il disagio è da capire, se non riusciamo a capire la nuova sofferenza, non potremo aiutare nessuno.” E’ un passo importante, ma credo non sufficiente, nel rapporto fra professionisti e non professionisti. Questo testo ci parla di una ‘follia parlata’ (anche se spesso la follia è stata più nascosta che esibita, più taciuta che parlata) che, finalmente, viene ‘scritta’. E lo scrivere di sè è certamente un potente strumento di consapevolezza per chi scrive; in questo caso io credo che questi scritti possano essere anche un potente strumento di comprensione per chi si occupa a vario titolo di disagio psichico, a patto di accettare le numerose risonanze che vengono attivate in ciascuno dalle esperienze di vita descritte. 

E credo anche, traendo spunto dalle affermazioni iniziali della curatrice, che innestare la pratica dei laboratori autobiografici su di un terreno reso fertile dall’esperienza dei gruppi di auto-mutuo-aiuto sia una scelta proficua e vincente per innestare altrettanti circoli virtuosi. Per questo ringrazio gli autori per averci consentito di avvicinarci ai loro percorsi di vita.

La presentazione è pubblicata anche sul sito della LUA all'indirizzo:
http://www.lua.it/index.php?option=com_content&task=view&id=4141&Itemid=109